lunedì 16 febbraio 2009

Parole per Frittella....

Mi hanno sempre detto che il mio racconto sulla storia di Nathan è molto commovente...ma quando ho letto le parole di papà Gilberto, mi sono sentita piccola piccola...
Parole per Frittella

Ricordo quando sei arrivato. L’ascensore ha aperto le porte e ti ho visto, piccolo e urlante, nella tua culletta termica. La meraviglia e l’amore che sono montati dentro erano una sensazione inaspettata, per me che pensavo di essere pronto a tutto. Ti ho seguito inebetito reggendo i tuoi vestitini nell’altra mano, cercando un po’ di intimità. Non ho avuto il coraggio. Ho guardato, assaporando ogni dettaglio, mentre ti lavavano e ti cambiavano, con movimenti che presto sarebbero stati anche miei. Poi, finalmente, ti ho avuto in braccio. Pochi istanti, per poi rimetterti nella culla, al caldo, e finalmente soli. Mi sono inginocchiato, al tuo fianco, e ti ho parlato. Hai fermato le tue grida per aprire gli occhi e hai guardato dentro i miei, cercando quella voce che già da tempo conoscevi. Già allora tu sapevi che sarebbe stato breve, ma in quel momento eravamo solo noi. Tu, mio piccolo Amore ed io, il tuo papà. Ho capito in quel momento il valore della vita, il vero significato ed il motivo per cui veniamo al mondo. Come una cosa così semplice sia in realtà così complessa, non è spiegabile. Ma tutto è diventato chiaro: la mia vita era la tua. Mi hai guardato e ti ho guardato, ed ho pianto. Ho capito la fortuna e non ho potuto più trattenere quello che non sapevo di avere dentro. E ci hanno trovati così, a parlare della vita, mentre cercavo, maldestramente, di mandarti il mio amore.Poi, finalmente, noi tre: l’attimo in cui la coppia è diventata palesemente “Famiglia”. Quel momento tanto desiderato e tanto atteso, ha sprigionato la sua magia, ed ha cementato, come se ci fosse un ulteriore bisogno, un sentimento immenso. L’attesa, l’ansia, tutti i timori si sono sciolti alla tua vista, mentre prendevi le misure di una tutina che sembrava gigantesca. Sei stato con noi, appena possibile, e mi perdevo nel guardarti, incapace di credere come fosse possibile creare tanta dolcezza. E per la prima volta nella mia vita ho provato cosa vuol dire esser appagato, ho provato la vera felicità.I primi giorni sono stati strani, in clinica, mentre prendevi le sembianze di quello che stavi diventando, passando dalla dimensione del nido della mamma, alla tua culla, circondato da persone che ti amavano sin dal primo istante. La prima pappa, acqua e zucchero, il secondo giorno, con il biberon, in attesa che il latte arrivasse. Quel latte che ti ha fatto crescere e che hai tanto chiesto ed amato, alla tua mamma. La tenerezza infinita che provavo, cercando maldestramente di tenerti, provando una gestualità nuova. Il tuo profumo, che mai dimenticherò, di cucciolo nuovo, quel misto di latte e sapone buono, che facevano di te il fiore da sempre cercato.La mattina di Gennaio che sono partito da casa per venire a prenderti e portarvi finalmente a casa. Era ancora buio e le strade erano deserte, quel sabato mattina. E la radio mandava gli U2, annunciando una verità sconosciuta ancora: With or without You. L’ SMS al DJ, che a sua volta ricordava il suo momento magico: sto portando a casa il mio Piccolo, i miei Amori. Ed il mondo non è più buio, ora è sorto un sole nuovo, che porta Luce e calore. Com’eri piccolo, dentro al porta enfant, con gli occhi chiusi ai raggi del tuo primo sole ed un vento dispettoso che cercava di scompigliare i tuoi capelli scuri. E poi finalmente a casa, quella casa voluta per te, con gli alberi ed i tuoi disegni alle pareti. Ed i tuoi piccoli amici che accompagnavano la tua giornata, e che ancora non conoscevi bene.Il primo bagnetto a casa non è stato il mio. Guardavo, un po’ invidioso, chi aveva più esperienza di me; ma era solo questione di poco tempo, prima che quella prima volta catturasse il nostro rito, dandoci l’appuntamento giornaliero in cui cominciavamo a conoscerci. Non ricordo quale sia stata la prima, se quella del bagnetto o la nostra ninna nanna. Se pensavo che tua nonna - la mia mamma - mi cantasse qualcosa di assurdo, mi son dovuto ricredere, ascoltando le nostre parole. E quanto tu hai apprezzato quelle canzoni con poco senso e tanto affetto. Quanto ti ho cantato e quanto vorrei poterti cantare ancora. Tanto che ancora canto, mentre ti penso. “E siamo molto felici, siamo tutti puliti”. Alla sera, inginocchiato sulla tua vaschetta, non sentivo la schiena che protestava, e mi godevo le tue espressioni, mentre pensavo di portarti a breve in piscina, ad insegnarti un amore per l’acqua che speravo comune. E quanto è stato quell’amore, fino all’ultimo, godendo l’uno dell’altro dell’intimità privata che quei pochi minuti ci consentivano, prima del rito del pannolino, dei fazzolettini e della crema. Allora ti immaginavo a piedi scalzi sulla sabbia, abbronzato ed ancora un po’ incerto sulle gambe, mentre assieme andavamo incontro al mondo. Quello stesso mondo che ho cercato di raccontarti coi pensieri e le parole, nei lunghi pomeriggi passati a guardarci, rubando istanti preziosi. E mentre crescevi a vista d’occhio, succhiando dalla mamma la tua vita, scalciavi sulla bilancia, urlando la tua fame e pretendendo la tua pappa, subito. Tu, piccolo clone della tua mamma. La vita sembrava prendere la direzione pianificata, con te, la mamma, il lavoro e la fuga a Camogli ogni fine settimana. Come sarebbe potuto essere. Sei settimane. Quaranta giorni di normale felicità.
E’ stata la mamma che lo ha capito per prima: quella pigrizia strana, che invece nascondeva un errore raro. Ho in mente una telefonata, dove ancora non era chiaro, ma che diceva: qualcosa non è a posto. Un tassello poteva essere stato sbagliato.
Il crescendo di quei giorni, il timore che diventava terrore, mentre si cercava di non dare un nome a quanto stava succedendo. Fino a quel venerdì di Marzo, quando mi dissero: Vieni, presto!
Quanto eri piccolo, disperato per quello che ti stavano facendo. Ero incapace di consolarti, ti potevo solo dire: Va tutto bene, Piccolo mio. Va tutto bene; il tuo papà è qui con te. E gli esami, i prelievi. Già avevi capito che l’ospedale è un posto di dolore, dove la vita appassisce al lento scorrere dei giorni.
Quel fine settimana è avvolto dalla nebbia azzurrina della luce della notte, passata a contare i tuoi respiri. Un ricordo solo è scolpito, con lettere di sangue, direttamente nella mia anima. Amiotrofia Spinale.
Un nome che di per sé incute timore. Unito alla paura data dalla non conoscenza. Non c’è cura, non c’è futuro, non c’è vita, tra molto poco. Nulla si può fare, se non tornare ed aspettare, supini. Ho dovuto scriverlo, rileggerlo, per farlo mio e capire cosa sperare che non fosse. Ho pregato chi non so perché i risultati fossero negativi, mentre mi spiegavano cosa sarebbe stato. Ho voluto sapere i dettagli subito, per capire con cosa avevamo a che fare. Ho voluto io che mi instillassero il terrore puro, mentre mi raccontavano cose che non avevo mai nemmeno immaginato prima.
Siamo scappati, letteralmente, dopo aver pensato di perderti li. Siamo tornati a casa, intontiti, ma decisi a cercare, a trovare qualcosa che ti fosse d’aiuto. E mentre speravamo che non fosse, io già sapevo. Me lo avevi detto tu, uno dei primi assaggi di ciò che sarebbe poi stato normale, tra di noi. Poi quella telefonata, quella voce fredda che confermava il verdetto, come fosse una soddisfazione, l’aver visto il problema da lontano. Senza umanità. Senza compassione. Con la stizza nella voce alla richiesta della conferma sulla carta, come a dubitare della sua vittoria. Ma era la tua vita.
Siamo andati al mare, quel venerdì. Siamo partiti che eri ancora sano, con un dubbio che era tenuto nascosto. Siamo andati a fare quell’ultimo weekend normale, prima che la vita cambiasse anche esteriormente.
Ho cercato di proteggere la mamma. Ho spostato deliberatamente in avanti le lancette del tuo orologio, perché quello era nostro. E pioveva. Ma noi siamo stati bene. Noi, come avevamo sempre desiderato. Senza parlarne. Fingendo una normalità che non era nel cuore. Il mare da lontano era grigio come i tuoi occhi, mentre sentivi che la vita, forse, sarebbe stata ancor più breve. Indietro a casa, il fato ha voluto essere bastardo, facendole trovare quei tre fogli nella posta. Ed è stato reale. Per tutti, ma per nessuno. Hanno messo un traguardo più vicino, troppo. E a nulla valevano le lacrime, nessuno poteva fare nulla per aiutarti. E tu appassivi. Ti guardavo, e non ci credevo. Ti guardavo e non potevo accettare la mia impotenza. Ti guardavo, offrendo la mia vita in cambio della tua. Ma nessuno mi ascoltava. Poi tre luci, come per caso, si sono accese. Tre persone hanno visto che poteva non essere così, che c’era spazio per combattere. E la lotta è cominciata. Tu lo hai capito e con noi hai lottato. Tutto è cambiato in un istante. Il traguardo si è spostato in avanti, il domani è ritornato ed il tempo ha ricominciato a scorrere.
Il tempo: cos’è stato questo tempo se non un susseguirsi di sguardi, dilatato nella sua concezione terrena? Quanto tempo ho passato con te, che mi sembra eterno e troppo poco? Abbiamo imparato, forse in momenti diversi, io e la mamma, cosa poteva essere. Ho cercato per primo di capire, in modo da difendere te e lei, da rendere meno duro e brutale il futuro. Ho guardato con terrore crescente attrezzi che sarebbero diventati comuni, allora incapace di capire come fosse possibile convivere con quelle cose. Ho camminato avanti, da solo, facendo mio ciò che poteva essere utile nel quotidiano, nell’emergenza, aiutando la mamma ad accettare ed a imparare lei stessa quelle cose. Abbiamo avuto la fortuna di trovare subito chi ci ha dato le risposte, brucianti forse, ma sincere e vere, alle domande che non avevamo il coraggio di fare. Abbiamo imparato. Le giornate passavano e tu avevi deciso. Noi correvamo contro il tempo, rafforzando la Speranza con i tuoi movimenti. E tu sapevi e non ci dicevi. Quasi volessi illuderci per farci trascorrere momenti sereni. E lo sono stati, sereni. Le canzoni erano sempre più nostre. La ninna nanna della mamma aveva più successo di Papero Papero Papero Pa, e tu ti addormentavi, pattato dolcemente nella fioca luce della notte. Quante volte ti ho guardato, a quella luce, studiando il tuo viso, per imprimere ogni tuo particolare nella mia mente. Ho respirato sotto il bordo della culla per non disturbarti, pregando per una nanna serena. Quante volte ti ho accompagnato alle pappe notturne con la mamma, solo per esserci. Solo per dare a lei e a te la mia presenza, per quello che poteva servire. Solo per dare a me la possibilità di vivere un altro tuo istante. E mi sono impadronito di piccole cose: il ruttino, qualche cambio notturno, con quella confidenza che conosceva ogni tuo centimetro di pelle, assaporando ogni secondo che ci veniva regalato. Abbiamo filmato i tuoi bagnetti, confrontando i tuoi movimenti giorno per giorno, con la gioia nel cuore per quei pochi millimetri. Hai usato le tue manine, per cominciare a conoscere un po’ di ciò che ti stava attorno. Hai stretto un nuovo Amico, Nando dalle morbide lunghe orecchie, lo hai tenuto sempre con te, anche ad accompagnarti nel viaggio più lungo. Quanto sembrava lontano quella data di Maggio. Pioveva forte al mattino, ma tu sapevi che ci sarebbe stato il sole. L’erba tagliata di fresco era verde e profumava di buono. Tutti ti erano attorno ed erano felici, chi sapeva e chi, ancora, ignorava. Il sole, sulla porta della chiesa, e Don Pietro. Chi più di lui poteva essere adatto a te? Le parole, le persone. Quanto Amore c’era, sotto le arcate. Ti ho tenuto, e ti ho guardato dentro, sperando che potesse accadere qualcosa che tu non volevi. Ancora non capivo qual’era la tua volontà. Ma ti ho guardato ed ho sentito il sapore delle lacrime, perché sentivo che non c’era tanto spazio, che la sabbia non avrebbe visto le orme dei tuoi piedini. Eri splendido quel giorno, Re in mezzo a gente che neppure conoscevi, ma sempre a dispensar sorrisi, fino all’ora della pappa, quando la mamma è venuta a prenderti e ti ha dato la sua vita. Abbiamo brindato a te, abbiamo mangiato la torta di Frittella, golosi nell’assaporare un giorno lieto. Come se fosse stato vero. E quel giorno ho sperato. Ho sperato davvero di vedere la tua Comunione, non come Rito, ma come data. Ho sperato che forse non fosse davvero Primo Tipo, che forse ciò che non è convenzionale sarebbe stato più forte della tradizione. Ed ho vissuto, quel giorno ho vissuto sperando di vederti grande. Ma tu hai cominciato presto a giocare con la voce, con quello che è stato il primo segno, senza che noi sapessimo, pensando ad un tuo vezzo. Invece tu sapevi e con quel gorgoglio ci dicevi che il tempo passava, che gli attrezzi dovevano esser sempre portati appresso. Quello è stato l’inizio. E’ stato come una sfera che prende velocità in discesa, solo che la sfera era la tua vita.
La mamma è intervenuta per prima, usando quella cannuccia nel tuo nasino. Precisa, perfetta. E’ stato come non accorgersi di ciò che stava accadendo, mentre l’intervallo tra una volta e l’altra diminuiva. E mentre la cannuccia diventava una presenza costante, un rumore che avrei sentito ancora nei giorni vuoti, tu avanzavi sulla tua strada, seguendo il tuo disegno, senza darci possibilità di intervenire a variare ciò che volevi.
La metà dell’anno ormai c’era e tu hai cominciato a dirci che basta, era il momento di prepararsi. Ma come potersi preparare a ciò che non vuoi, ciò che mai avresti accettato? Solo l’amore immenso ci dava la forza, quando ormai il sonno era un ricordo lontano. Ma la tua presenza, piccolo e caldo di fianco al mio letto, era la linfa della vita che, malgrado tutto, continuava.
Quell’immagine strana, quel giorno, mi ha lasciato senza parole. Tu, in braccio alla Madre, sorridevi sereno, e dall’angolo opposto al solito tenevi quel filo sottile, lucente, a mostrare ancora una volta che sarebbe stato poco.
Giugno era finito, l’incubo sembrava passato, anche se avevi cominciato a mangiare di meno. Magari il traguardo era più distante, ma no. Era solo questione di ore. E da quel momento i ricordi si accavallano, perdendo la linearità del tempo e mescolandosi vividi nella mia mente.
Ti vedo di fronte a me, come se fosse ora. Il rigurgito e la macchina che non aspira. Mi guardavi, con i tuoi occhioni che dicevano: papà, aiutami. Ed io ho detto: lo perdiamo! Ma non volevo, non potevo lasciarti andare. Ho soffiato aria dentro di te, cercando di ridarti quel respiro interrotto. Ho spinto sopra al tuo cuore, per continuare a farlo battere. Ho continuato a soffiare e a spingere sul tuo pancino, con movimenti guidati dalla disperazione, dall’istinto, da te. E finalmente hai buttato fuori quel grumo di latte. Hai ricominciato con un debole respiro. La mamma si disperava, incredula, senza sapere cosa fare. Ma tu sei tornato da noi. Ricordo di averti detto, dopo: Se vuoi andare, ora puoi. Ma non prima, non così, non di fronte a Lei. E sei restato. Chiudo gli occhi, ora, e rivedo i dettagli, ma più forte di tutto è il tuo sapore in bocca: latte, dolce nel terrore. Mio piccolo Cucciolo, come se fosse necessaria un’ulteriore prova. Io ero tuo e tu eri mio. Come hanno detto, hai avuto la fortuna di nascere due volte. E la seconda volta sei nato con me.
Da quel giorno tutto è cambiato. Sapevo che l’orologio aveva finito la sua carica, ma non volevo accettarlo. E nel contempo, consideravo crudele tenerti qui, con noi, a soffrire. La pappa oramai era un ricordo lontano, non riuscivi più ad inghiottire quel latte di mamma che ti aveva cresciuto sino ad allora. La bilancia che tanto ci aveva rallegrato, dopo aver fermato il suo cammino, aveva iniziato a tornare indietro, senza che noi riuscissimo a darti il tuo cibo. Quel giorno al pronto soccorso, con quel dottore alto che hai conquistato al primo sguardo. Ti hanno messo un ago nelle vene per darti acqua, ma non era la soluzione. Non era il posto. Tu dovevi, volevi essere a casa tua. Il pericolo era dentro ai polmoni. Non volevo credere all’avverarsi di un’altra delle cose annunciate, come se stessimo spuntando una lista. Ma su quella lista le cose rimaste erano poche. E l’ultima era puro terrore.
Quando quella sera ti sei addormentato con la macchina collegata al piedino, i numeri verdi hanno iniziato a danzare, come una foglia che lascia l’albero ed inizia a scendere verso il terreno, a volte portata dal vento, ma piano piano, sempre più in basso. Ci stavi lasciando, pensavi che il tuo lavoro qui fosse terminato. Me lo avevi detto già molte volte. Come quando prima di partire da Camogli, l’ultima volta: Non rivedrò più questa casa. Ed io ho sentito la tua voce dentro di me, pronunciare queste parole serene, di chi sa dove sta andando. E un’altra parte di me ha cominciato a morire. Ti ho detto vai, se vuoi cucciolo mio, ti ho parlato senza parlare, come facevamo noi due, per salutarti. Ma la mamma non era pronta ancora. Per te ho imparato a sconfiggere la mia paura e ad infilarti il tubicino nel naso. E tu, incredibile Cucciolo, aspettavi che io contassi, ed inghiottivi mandandolo dove doveva andare. C’era il tuo papà a fare il lavoro sporco. Le tue sette pappe, di giorno e di notte, erano il nostro appuntamento. Nessuno ti ha toccato, né allora né mai. Hai ripreso peso, hai continuato a restare con noi. Sapevamo che il termine si avvicinava, e vivevamo ogni minuto, aspirandolo con disperata avidità. Quell’ultimo weekend è stato bellissimo. Noi tre assieme, a casa, a immaginare una vacanza al mare che non sarebbe venuta. A sperare di ingannare il destino e riportarti dove non saresti tornato. Abbiamo vissuto intensamente, scherzando, giocando. Abbiamo le tue immagini, con i tuoi amici. Sei sereno, sorridente. Come hai fatto ad avere tutta quella forza dentro ad un involucro così piccolo e fragile?
Quando tutto è diventato fatica, la mamma ha capito e ti ha parlato: Vai, se vuoi, la mamma è pronta. Le parole che aspettavi.
Ero fuori, a prendere una medicina, quando la Zia mi ha detto: 70! Ho chinato il capo e sono tornato subito, perché sapevo. Quello era il tuo momento, quello che mi avevi sempre raccontato, cominciando da lontano. La fogliolina ancora ha cominciato a danzare sui numeri verdi, portando valori che per gli umani non sono più vita. Io sapevo che sarebbe stato al mattino, quando tutto è silenzio. Poi ci hai salutato, e quando gli allarmi continuavano a suonare, ho staccato la macchina, perché oramai eravamo solo noi. Hai aperto la porta alle 4.30. Hai guardato la luce dall’altra parte, che mai hai smesso di vedere. Ci hai regalato ancora qualche respiro e poi quel sospiro, come di liberazione, quando ti abbiamo salutato, baciandoti mentre ti tenevamo la mano. Ti ho preso in braccio, ancora una volta. Ti abbiamo cambiato, con un patello pulito e la tua crema col profumo di buono. Quel vestitino azzurro, che ti dava un’aria elegante, regale. Ho rubato una ciocca dei tuoi capelli: il gioiello più prezioso che esita. E ti ho messo nella tua culla, abbracciato a Nando, con tutti i tuoi amici ad accompagnarti.
L’ultima volta che ti ho preso in braccio, per deporti nella cassettina bianca. Ho voluto farlo io, come sempre, perché è il papà che fa queste cose. E non ti ha mai toccato nessuno. Solo io. Ti ho adagiato su quel velo bianco, con il tuo cuscino ed il lenzuolino ricamato. Abbracciato a Nando, con Pino, Gino e Pucci a tenerti compagnia, e la nostra foto, mamma e papà, al tuo fianco. Ti ho accarezzato ancora una volta, ho baciato la tua fronte bianca, prima di chiudere il coperchio. Siamo andati assieme al mare, verso quel posto che Paola aveva trovato per te, assecondando per amore una richiesta assurda. Voglio una casa sull’acqua, da dove vedere il mare, mentre cantano i gabbiani. E lei te lo ha trovato. Il tuo vestito ha dormito ancora una notte nella casa sulla collina, prima di ritornare in quella chiesa che ti aveva visto protagonista, in una insperata giornata di sole. Ed ancora il sole, in un cielo bianco, con Don Pietro che aveva capito. Ti ho portato sulle ginocchia, verso il tuo posto. Ho lasciato che tutti salutassero il tuo vestito, con l’ultimo bacio della mamma. Ti ho poi sistemato, ancora una volta io ultimo, mettendoti a fianco i fiori. Ti ho salutato ed ho lasciato li il mio cuore. Perché tu sei la mia vita.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

non ci sono parole x descrivere questo papà,non mi sono sentita piccola ma di +.non mi sono commossa ma piango xchè i figli sono il bene + prezioso e lasciarlo andare deve essere stato 1 dolore che + grande non cè al mondo

Anonimo ha detto...

Gilberto, leggo le tue parole e vedo che anche tu, come me, amavi tuo figlio piu' della tua vita, com'e' giusto che sia da parte di tutti i genitori, madre o padre che siano.non ci resta che la fede,pensare che adesso loro sono in un mondo migliore, ma per quanto possa sforzarmi questo non allevia il mio dolore. Clemente, il padre di Jacopo

Anonimo ha detto...

sono piccola piccola, di fronte a te... piccola piccola. Se mai arriveranno un bimbo ed un papà,nella mia esistenza, prego che sia come te. Angelo buono. Grazie della commozione che oggi mi hai regalato. Che gli Angeli veglino sulla tua famiglia.

Anonimo ha detto...

ho letto la tua storia tante volte..sei lesempio più vero, più assoluto di quello che vuol dire essere padre, essere un papà capace di amare...io sono mamma, noi mamme a volte siamo presuntuose, pensiamo che nessuno ami i figli più di noi...bene io ora so che non è vero, non ho mai sentito tanta delicatezza, tanta poesia tanto amore scaturire da un racconto che ha purtroppo un finale così triste...ho detto triste e non tragico perchè io vivo nella Fede e la mia Fede mi da la certezza che il tuo angelo bellissimo vive la VEra Vita, quella dove un giorno vi riabbraccerete per sempre...ti abbraccio forte forte anche io...mi auguro che il Signore vi possa dare un po di consolazione...solo Lui può riuscirci perchè qui in questa vita non abbiamo le parole